TRA EROS E SOVVERSIONE: L’ALCHIMIA CINEMATOGRAFICA DI TINTO BRASS

Tinto Brass e Sarah Cosmi sul set di Fallo – 2003

Nel fascino inebriante del cinema, Tinto Brass, con la sua maestria sovversiva e penetrante, ci trascina in un viaggio vertiginoso nei recessi più oscuri e affascinanti dell’animo umano.

Nel tumultuoso 1974, il mondo della letteratura fu scosso fino alle fondamenta dall’emergere di un capolavoro fulgido e provocatorio: Film as a Subversive Art di Amos Vogel. Quest’opera epocale, intrisa di acume e visionarietà, si immergeva audacemente nelle intricate trame dell’estetica sovversiva, svelando i recessi più oscuri dell’animo umano attraverso lo schermo sacro del cinema. Una semplice analisi critica? O forse, un invito a un viaggio rivoluzionario verso l’altare moderno dei rituali visivi?

La risposta arrivò anni dopo, nel 2006, quando un pamphlet intriso di satira acuminata fece il suo ingresso trionfale sulla scena culturale italiana. Al grido di «sul piano etico, il sedere è più onesto della faccia» smascherava senza mezzi termini l’ipocrisia sociale, innescando un feroce dibattito sul finto moralismo della gente. Questo prologo, o forse dovremmo dire “culofilo” manifesto, introduceva senza filtri e con coraggio il percorso visionario del maestro dell’erotismo cinematografico, Tinto Brass, pioniere come Vogel nell’arte delle nuove strade espressive.

TRA LE CALLI VENEZIANE

Tinto Brass e la sua arte

Chi è Tinto Brass? Se fossimo critici cinematografici degli anni ’60 e ’70, potremmo facilmente liquidarlo come un “perverso” ossessionato dai fondoschiena femminili o un rigurgito di cliché strapaesani. Tuttavia, audentes fortuna iuvat. Così, oggi, con una mentalità meno radical chic, ci avventuriamo con entusiasmo nelle trenta pagine di un Elogio del culo, un’opera che va ben oltre l’apparenza.

Flusso incantato di verità struggenti nell’abisso di un’anima tormentata che sfida i confini estremi della sensualità e della ribellione, quest’opera oscilla tra penombra e luce, tra contemplazione e azione, tra il freddo abbraccio delle droghe e il giudizio implacabile dei tribunali.

La vita del nostro Tinto Brass (all’anagrafe Giovanni) ha inizio nella mondana città della Madonnina, ma è nella seducente Venezia che il “pargolo” milanese trova finalmente pace e comprensione. Come se l’«imbroglio di fatalità», a mo’ gucciniano, avesse intessuto un legame indissolubile tra l’artista e la Serenissima.

Proprio nell’atmosfera corrotta della laguna, nutrita dallo sguardo furtivo sui «glutei poderosi» della madre e dalle ombre del conflitto eterno con il padre, le sue visioni adolescenziali prendono vita. Tra Paradiso e Inferno, tra godimento e repressione. Un perpetuo vagabondaggio tra ciò che è moralmente accettabile e l’inevitabile reclusione, sotto il vessillo dell’esibizionismo e della provocazione visiva, dove l’eros, ribelle al conformismo dilagante, regna supremo.

L’APPRODO LAGUNARE

Chi lavora e perduto -1963
Chi lavora è perduto – Tinto Brass – 1963

Tra i riflessi argentati delle acque veneziane, nel 1963, anno d’oro per il cinema italiano, tra capolavori come Il Gattopardo di Luchino Visconti e di Federico Fellini, si staglia l’approdo del regista veneto. Il film in questione, intitolato in un secondo tempo Chi Lavora è Perduto, è un “peregrinare” attraverso i segreti delle calli, un flâneur di una giovane anima in cerca di identità.

Sotto l’influenza della Nouvelle Vague francese, abbracciata durante gli anni trascorsi alla Cinémathèque Française, Brass sperimenta uno stile arrischiato e incisivo, confermando il suo genio visionario. La sessualità, audacemente esplorata, permea sia i monologhi interiori del protagonista sia gli incontri appassionati con la sua amata, senza veli né timori.

Istantanee erotiche che culminano in un crescendo sospeso tra: «sogno o son desto?», un teatro di desideri proibiti, e un protagonista senza freni in un coito immaginario. Un esordio avvolto nell’aura della controversia, ardito nel confrontare apertamente la censura con un “umorismo anarchico”, ma indubbiamente affascinante. E come potrebbe non esserlo, con una donna seminuda in primo piano, ad incantare lo sguardo?

Tinto brass: DAL GROTTESCO ALL’EROTISMO

La-mia-signora-Tinto-Brass-1963
La mia signora – Tinto Brass – 1963

Ma se è vero che «chi si accontenta gode solo a metà», è con gli episodi L’uccellino e L’automobile nel film La mia signora del 1964, con Silvana Mangano e Alberto Sordi, che Tinto Brass raggiunge finalmente l’apice. Eppure, per gli amanti dell’erotismo cinematografico e i fedeli del “sessualrivoluzionario” di quegli anni, nulla sarà più memorabile della scena della marziana sensuale. Con seni custoditi in sfere di vetro e il corpo avvolto in una tuta spaziale aderente, incanta attraverso Il disco volante (1964). Un pennello d’autore, ardente e incisivo, “scagliato” nuovamente contro le molteplici “marachelle” istituzionali.

Il colpo di grazia arriva tuttavia nel 1966, nel selvaggio scenario del western all’italiana di Yankee. Un erotismo d’autore, sottile quasi tangibile, uno sfiorarsi di pelle e passione che prelude alle sue future ossessioni cinematografiche. Un ulteriore colpo di genio arricchito dallo stile inconfondibile, meravigliosamente surreale dell’autore.

OLTRE I LIMITI DEL RISPETTABILE

Col cuore in gola - Tinto Brass - 1967
Col cuore in gola – Tinto Brass – 1967

Pioniere dell’audacia cinematografica, Tinto Brass, solca finalmente le onde tumultuose del giallo-sexy italiano con Col cuore in gola (1967), un’opera che incendia gli animi con una fusione esplosiva di sensualità e provocazione. Ispirato dall’avanguardia di Jean-Luc Godard e animato dalla penna incisiva di Sergio Donati, Brass crea un quadro cinematografico indimenticabile: l’incontro ardente tra Jean-Louis Trintignant ed Ewa Aulin in uno studio fotografico, culminato dalla tentazione avvolgente di una Aulin in calze a rete bianche, legata e sedotta da un nano perverso.

Nel 1968, con una maestria che sorprende e sconvolge, Brass scavalca i confini del rispettabile con un’opera che arde di una intensità e trasgressione senza precedenti: L’urlo. In un albergo che richiama le visioni infernali di Dante, il regista dipinge scene infuocate e scioccanti: un prete che si masturba in treno davanti a una ragazza in calze a rete, che a sua volta si abbandona al piacere; giovani beat che danzano nudi e la brutale violenza sulla protagonista, vittima di uno stupro di gruppo perpetrato da soldati.

Nerosubianco (1968) segna il culmine di questa audace esplorazione, un’epica sinfonia sensoriale che fonde l’arte del fumetto con un coraggio senza eguali, dando vita a un turbine di emozioni viscerali. Con il tocco magico di Guido Crepax e la seducente bellezza di Anita Sanders, Tinto Brass trasforma l’eros in un’arte sublime, intrecciando trame di tradimento e passione. La sua ossessione estetica per le forme femminili si manifesta in una magnifica esplorazione delle curve del corpo della protagonista, rivelate in una nudità mai completa.

LA DELUDENTE TRILOGIA DEL SOFTCORE

Salon Kitty - Tinto Brass - 1976
Salon Kitty – Tinto Brass – 1976

Come ogni altra forma di libertà, il fervore della libertà sessuale si scontra inevitabilmente con i suoi confini. Nel 1976, l’ardore erotico del veneziano sembra addolcirsi con il softcore raffinato di Salon Kitty, un’immersione nei bassifondi di un bordello nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma questo debutto nella sottocultura pornografica nazista non promette scintille.

Anche Io, Caligola (1977), con la sua star Malcolm McDowell, non brilla per fortuna, oscurato dai conflitti interni che ne intaccano lo spettacolo. E Action (1980) non riesce a raccogliere applausi dalla critica, offrendo una confusione tra arte e pornografia: «è l’arte che si tramuta in pornografia o la pornografia che ambisce all’arte?»  Un dilemma che lascia lo spettatore in sospeso, tra dubbi e riflessioni.

CAPOLAVORI AL FEMMINILE

Miranda - Tinto Brass - 1985
Miranda – Tinto Brass – 1985

«La fine di un mito? Assolutamente no!» Tinto Brass, rinasce con il fulgore di La Chiave (1983), in un nuovo vortice di passione e seduzione. Ispirati dalla sensuale Stefania Sandrelli al suo esordio, i corpi, imperfetti, diventano simboli di una bellezza autentica, svelata senza veli nel suggestivo scenario della Venezia fascista. Ogni inquadratura è un’ode all’erotismo, la macchina da presa diventa complice di un gioco ardente e gli ambienti emanano un’aura carnale, trasformando la visione in un’esperienza sensazionale.

E nel 1985, se «la Rivoluzione è Donna», ecco un altro gioiello: Miranda. In una reinterpretazione audace de La Locandiera di Goldoni, Serena Grandi incanta con sequenze sensuali e giochi di specchi che esaltano l’estro solare di Brass. Gli uomini tentano di possederla, ma Miranda, con un sorriso ironico, ribalta le convenzioni, sfidando il patriarcato: “è bello amare un uomo? Sì! Ma, solo uno alla volta?

UNA «PORNOUTOPIA» PERDUTA

Tinto Brass evoca un’Italia di provincia che sembra appartenere a un sogno ormai scomparso, se mai fosse esistita. Non un’Italia oppressiva e spenta, fatta di grigie convenzioni e sospetti, ma una terra di piaceri semplici e sensuali. In questa visione, le rigide norme patriarcali si dissolvono come nebbia al sole, lasciando spazio a forme voluttuose ed emancipate, dove il peccato non è solo accettato, ma celebrato come autentica espressione dell’anima.

Nei suoi film, le donne spiccano il volo come farfalle finalmente libere, rifiutando il destino di semplici pedine nel gioco del desiderio maschile. Sensuali e affascinanti, bramose di uno sguardo che le guardi, ma che non le catturi, sono predatrici e non prede sul filo sottile tra desiderio e libertà, tra passione e indipendenza. Una “pornoutopia” sì, ma tutta al femminile. E forse, oggi, avremmo preferito abbracciare il dolce palpito dell’estasi, come faceva la nostra paladina Tina Aumont, piuttosto che impugnare armi in guerra. Tra le pieghe setose del piacere, c’è vita, ben distante dal gelido abbraccio della terra. Ma, Tinto, questa verità ancora ci sfugge.