Skam Italia: Lo sguardo crudo e reale sull’adolescenza

Skam Italia
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Attraverso gli occhi degli adolescenti

La voce fuoricampo con cui si apre quasi ogni stagione di SKAM Italia suona come un coltello che attraversa la pelle di ciascuno spettatore, che sia un adolescente, appunto, o un adulto: un teendrama, ma lontano anni luce dai prodotti audiovisivi italiani dedicati all’adolescenza.

SKAM ci dà l’unico sguardo reale sul mondo dei giovani, rivelandocene l’infinità complessità, a partire dalla sua prima stagione, irrompendo in sfere tematiche a cui “qualcuno”, di solito, guarda solo da lontano o con una sfrontata miopia: i legami tra maschi e femmine, l’accettazione di sé, l’integrazione, la mascolinità tossica, il rapporto con il sesso e anche i disturbi alimentari.

In SKAM i problemi diventano problemi di tutti, così come lo stesso significato del termine “vergogna” diventa più ampio per mettere sotto i riflettori il senso di inadeguatezza che comporta un percorso di crescita. Il protagonista di ogni storia fa i conti con un problema che gli crea disagio. Al centro c’è una generazione, il suo lessico e le sue canzoni.

Dinamiche relazionali, in cui un errore come innamorarsi del ragazzo della propria migliore amica diventa motivo di gogna, escono dal banale per indagare più in profondità i sentimenti e il dolore, perché a 16 si può provare dolore.

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Skam Italia: l’importanza dei dettagli

La differenza la fanno i dettagli, l’attenzione minuziosa con cui si guarda all’interiorità, esprimendo il disagio attraverso l’accostamento impeccabile di immagini e musica, e senza sottolinearlo di continuo. Dall’intensità di uno scambio di sguardi amplificata dall’intro di “I wanna be yours” degli Arctic Monkeys che ci dice già tutto su Martino e Niccolò, al suono incessante della sveglia che ricorda a Sana il momento della preghiera insieme alla sua “distanza” dal contesto sociale in cui trova; dall’allegria generale al matrimonio di Rami con “Più bella cosa” di Eros Ramazzotti al karaoke in una struggente contrapposizione con il viso serio e provato di Elia, a una versione acustica di Barbie Girl mentre Asia è intenta a eliminare il grasso da una fettina di carne sottilissima.

Senza dare morali, SKAM mostra a una ragazzina che è rimasta da sola che può rincominciare da capo; parla al cuore di tutti quelli che, come Martino, hanno scavato nelle proprie viscere e hanno capito che non c’è niente di male ad amare una persona del proprio sesso. Porta davanti agli occhi di giovani e adulti la difficoltà di una ragazzina nel vivere un abuso sulla propria pelle; trasmette quella sensazione di claustrofobia che si prova nell’essere intrappolati in un posto che fa solo finta di accettare la diversità, ma che la vive come tale in quanto tale. Entra nel corpo di ogni ragazzo incastrato nelle sue paranoie perché costretto a dimostrare di essere un uomo a una società che vede la sensibilità una questione femminile, per cui se piangi “sei una femminuccia”, se non ti porti una ragazza a letto “sei gay”.

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L’invito alla riflessione di Skam

Skam regala al pubblico sensazioni, riflessioni in slow motion che traducono una voce: quella degli adolescenti contrapposta a chi dice “non si preoccupi, adesso la faccio mangiare”, che riduce il problema da psicologico a fisico. Così l’ultima stagione di Skam affronta un tema estremamente delicato come i disturbi alimentari con altrettanta delicatezza, quasi disarmante. Senza mai mostrare l’oggetto del delitto, il corpo, si sofferma su una ciocca di capelli che cade, sulla fatica insostenibile di portare una forchetta alla bocca quasi fosse troppo pesante, sul cambio di espressione appena qualcuno parla di cibo.

Ma la potenza sta anche nelle parole: “È un momento difficile, ma al di là del cibo” dice Asia, e noi impariamo che non è mai al di là, “perché è bello avere almeno una cosa sotto controllo, soprattutto se pensi di non riuscire mai a controllare niente”. Ecco come Skam entra nelle menti più fragili e le proietta sullo schermo, portandole all’attenzione di chi ne è fuori, “il mondo adulto” aiutandolo se non a capire, almeno a non “puntare il dito”.