La solitudine degli artisti: la corsa al successo è questione di tempismo?

“È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente” scriveva Kurt Cobain nella sua lettera d’addio, citando i versi di My My Hey Hey di Neil Young.

Era il 1994 e volava via un’altra leggenda, paragonabile alle fiamme che lo avevano preceduto, simbolicamente alla stessa età: da Brian Jones nel ‘69, a Hendrix nel ’70 e la sua amica Janis Joplin solo un mese dopo, fino al Re Lucertola nel ’71. Se è vero che “chiunque si uccida quando è giovane e all’apice del successo sia destinato al mito, al di là dei suoi meriti” (Mark Arm, Mudhoney), le ragioni che spingono a questo epilogo sono ben lontane dalla voglia di sopravvivere nei ricordi della gente.

È facile, ma anche riduttivo, attribuire questa “fragilità” all’incapacità di gestire fama e successo, se non si fa riferimento alla precarietà e fugacità, soprattutto in passato, di quel vortice che ti inglobava e che l’attimo dopo poteva trasformarti in nullità. Comuni denominatori di destini simili tra loro: la paura di diventare meteore, di perdere sé stessi, l’ansia di essere smascherati e più di tutto, la solitudine.

“Non posso imbrogliarvi, nessuno di voi”

Lo sapeva bene Kurt, che aveva inglobato in sé ognuna di queste sensazioni arrivando a estirparle con un’apatia abissale, sfogata inevitabilmente attraverso l’abuso di droghe. Inghiottito da un’industria musicale che lo aveva trasformato in tutto ciò che detestava, si sentiva sopraffatto dal successo e dal dover mantenere alte le aspettative del suo pubblico in qualità di “portavoce della Generazione X”.

È così che, alienato dalla sua stessa musica, nella lettera il cui ricordo brucia con la stessa intensità delle sue parole, arriverà a scrivere: “Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere […] Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. […] non è come era per Freddie Mercury, che adorava la folla e ne traeva energia […] Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi”.

solitudine

La trappola dorata

La stessa sensazione di essere in trappola, la conosceva anche il Re del Rock and Roll. Nella sua gabbia dorata, che non è soltanto una metafora, Elvis soffriva di solitudine e depressione. Il successo precoce lo catapultò in un mondo di fama e adulatori, che lo portò a sentirsi solo e incompreso. La rockstar è stata l’emblema del sogno americano, anche nella mancanza di un lieto fine.

Ecco che risuona l’insostenibilità di una fama destinata a durare in eterno, al prezzo, però, della propria libertà. E così Janis Joplin e “le sirene diaboliche del successo di massa e la solitudine immane a riflettori spenti”, e Jim Morrison, l’idolo che non voleva più esserlo. “Io non sarò mai nessuno, ma nessuno sarà mai come me”, diceva, e come lui nessuno sarà mai Amy Winehouse, Whitney Houston e, per avvicinarci ai nostri tempi, Chester Bennington e Chris Cornell. Vittime dei loro stessi demoni interiori, chissà se in altri tempi avrebbero fatto scelte diverse.

anime “fragili”

Non esiste per forza una stretta correlazione tra la corsa verso il successo, così come il suo perseguimento, e talento. A volte non basta la forza di volontà: a entrare in campo sono aspetti sociali e anche economici che creano le condizioni affinché sia possibile l’esplosione di un fenomeno in un determinato periodo storico, ma sono altrettanto in grado di distruggerle, rendendo fallibile lo stesso fenomeno anni dopo.

Così, per tutte queste anime “fragili” ma intrise di una profondità indissolubile, si consuma quella “disperazione abissale” e “fame insaziabile” protesa verso un infinito che non è raggiungibile su questa terra e in questa vita. Forse è per questo che gli artisti hanno una sensibilità che trascende la realtà umana e, forse è per questo, che i loro sogni, le loro speranze, devono bruciare in fretta, per non spegnersi lentamente.