“il secondo sesso” Dal bianco e nero al colore:

C’è ancora domani, Barbie e Povere Creature!

donne

Il cinema degli ultimi due anni ha riportato sullo schermo una rappresentazione del “secondo sesso” e della società patriarcale attraverso forme che possiamo definire inedite. Tra queste, spiccano tre film che, pur con differenze significative, affrontano il tema in chiave decisamente pop.

Incassi che non si contavano da Avatar vedono il trionfo senza rivali di C’è ancora Domani di Paola Cortellesi, cui segue Barbie di Greta Gerwig fino a Povere Creature! di Yorgos Lanthimos. La distanza tra i film è lampante: nel primo il bianco e nero ben definisce un contesto realistico e preciso periodo storico, riportando fatti e storie verosimili. Negli altri due vige la fiaba che è un utile espediente narrativo per raccontare il vero protagonista: “l’uomo-sovrano proteggerà materialmente la donna vassalla e penserà a giustificarne l’esistenza” (De Beauvoir, 1949).

C’è ancora domani (2023)

donne

Sei ancora in tempo” – “anche tu”, risponde Marcella a sua mamma quando la prospettiva che le si sta per aprire davanti si trasforma improvvisamente nella stessa vita di Delia. Così, Paola Cortellesi in un’interpretazione tra le migliori della sua carriera, fa distruggere il bar del promesso sposo della figlia, offrendole una via d’uscita, l’unica. La storia di Delia è la storia di sua mamma e di sua nonna, di tante donne che hanno vissuto all’ombra dei propri mariti, padri, uomini che si tramandano la loro “educazione” di generazione in generazione: “così facevo con tua mamma” dice a Ivano suo padre.

Donne zittite solo per il fatto di essere nate donne in un mondo di uomini. E non c’entra il rango sociale, “la divisione dei sessi è un lato biologico, non un momento della storia umana” (De Beauvoir, 1949), così l’unico modo di affermarsi diventa l’accettazione di essere l’altro, la sottomissione pagata con la violenza, che si consuma a porte chiuse quasi fosse un momento intimo, a passi di danza.

Ma è il viso di Delia a svelare la sua condizione, la sua umiliazione e voglia di riscatto, che ritroverà quando deciderà, fiera, di prendersi l’unica cosa che le viene concessa: il diritto al voto. Ma come insegna De Beauvoir “l’azione delle donne non è mai stata altro che un movimento simbolico: esse hanno ottenuto ciò che gli uomini si sono degnati di concedere”, perché “la libertà delle donne è un diritto all’uguaglianza con l’uomo”. E ancora una volta, l’arma di difesa è il silenzio, le labbra tese e chiuse di una solidarietà che vuole avere il proprio posto nel mondo, quello che le spetta per diritto, e non per concessione.

Barbie (2023)

Dopo aver dimostrato la sua abilità nell’affrontare la storia dietro “un essere umano che cerca i suoi valori in un mondo di valori” (De Beauvoir, 1949) in film come Lady Bird (2017) e Piccole donne (2019), Greta Gerwig torna sul suo tema preferito con Barbie. Purtroppo, stupisce la maggior parte del pubblico che non è stato in grado, o non ha voluto leggere il messaggio, scavando più a fondo di quello che può essere una storiella per bambine. Ma, al di là della quantità e qualità di riferimenti cinematografici che rivelano già una profonda serietà di regia, forse è proprio questo il trucco: invitare lo spettatore medio a guardare e a capire problematiche che, purtroppo, accompagnano ancora il mondo contemporaneo.

Così Gerwig lo fa lasciando parlare la sua Barbie che inizia a provare emozioni e, dal suo mondo ideale e perfetto – in cui le donne sono stereotipi ma vincitrici di Nobel, giudici della Corte suprema, presidenti mentre Ken “è solo Ken” – viaggia verso il mondo reale dove, anche se “il patriarcato non dovrebbe esserci più”, in realtà esiste e “lo applichiamo bene, solo che lo nascondiamo meglio”.  

Qui le differenze tra le Barbie e i Ken sono di altro tipo: “Io non ho questa sensazione. La mia potrebbe essere descritta come ‘ammirato‘. Ma non ‘osservato’”. Non c’è un sottofondo di violenza” dice Ken a Barbie Stereotipo che risponde con un secco: “La mia ha molto un sottofondo di violenza”. Ad un film come Barbie, dunque, non possono sfuggire temi che riportano l’attenzione sulla donna nella società, oltre che un irriverente considerazione sui ruoli di genere, ma il monologo di Gloria parla da sé.

Povere creature! (2024)

In un universo fiabesco che ci trasporta dal bianco e nero degli spazi interni e iniziali ai meravigliosi colori che affrescano il mondo esterno quasi come fosse un quadro infinito, la protagonista del film di Lanthimos (quell’incantevole premio Oscar di Emma Stone) è una Povera Creatura costruita dallo scienziato dott. Godwin “God” Baxter (un’imperdibile Willem Dafoe), innestando il cervello di un bambino ancora in grembo nella testa di sua madre Victoria. La donna si scoprirà morta suicida per scappare dalla gabbia in cui l’aveva rinchiusa suo marito.

E già qui ci sarebbe tanto riflettere, ma nel caso di Povere creature, non c’è neppure il bisogno di farlo da soli. Il regista ci guida nel suo pensiero tragicomico, mostrandoci la cruda realtà dei fatti attraverso lo spettatore più curioso e innocente di tutti: il cervello di un bambino che viene catapultato nella realtà adulta. “C’è un mondo da assaporare, circumnavigare”, cioè una realtà fatta di disparità sociali, in cui si fanno guerre e si distruggono popoli e, in cui, non si sa bene il perché, ma il potere appartiene agli uomini.

Uomini che decidono tutto, che vivono la relazione amorosa come un possesso e per cui le donne che imparano sono una minaccia, se non obbediscono lo fanno a causa della loro “clitoride”. “Una donna che traccia la propria rotta verso la libertà… incantevole”: Bella Baxter cresce, impara, scopre il sesso e, davanti alla prospettiva di una vita in gabbia, sceglie di partire insieme all’emblema del viril homo, che le promette la libertà, finché non se ne invaghisce e tenta di tenerla sotto il proprio controllo. “Mi vuoi sposare o mi vuoi uccidere?” chiederà Bella a Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo).

Partire da zero

D’altronde “nessuno è di fronte alle donne più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità” (De Beauvoir, 1949). Dopo aver conosciuto il mondo degradante della prostituzione e scoperto il tragico destino che comporta il nascere donna, Bella torna a casa. Emblematica, forse, la decisione di impiantare il cervello di una capra in quello dell’ex marito Alfie. Un modo per dirci che la soluzione non sta nell’accettazione di una realtà condannata a rimanere tale, ma è partire da zero, come se ci impiantassero un nuovo cervello, che guarda con nuovi occhi e mira al cambiamento.

E per rispondere a chi pensa che definirlo un manifesto femminista sia riduttivo, volendo allargare il tema alla rappresentazione della società, quello che viene fuori dal ritratto di questa società è proprio ciò di cui si è parlato fin ora: “mi sono avventurata e non ho trovato altro che zucchero e violenza”.